venerdì 3 febbraio 2012

Appello per l'incolumità della cappella Scrovegni

Appello per l'incolumità della cappella degli Scrovegni

L’appello per l’incolumità di uno dei massimi monumenti dell’arte italiana, la Cappella degli Scrovegni a Padova è stato promosso da Alessandro Nova, Steffi Roettgen e Chiara Frugoni (massima studiosa della cappella) ed è stato scritto da questa ultima.
Chi volesse sottoscriverlo, può mandare un’email al professor Sergio Costa: gs.costa@alice.it 


Gli affreschi di Giotto della Cappella Scrovegni a Padova corrono il rischio di essere distrutti perché la delicatissima situazione idro-geologica sottostante sarà modificata inesorabilmente dalla progettata costruzione di un Auditorium a meno di 200 metri dalla cappella. Nella stessa zona esiste anche il progetto di un grattacielo di 104 metri ed è stato appena ultimato un parcheggio, cioè una vasta cementificazione che ha modificato l’assorbimento delle piogge nel terreno.
I risultati di uno studio affidato dal Comune nel 2011 a tre ingegneri sulle possibili conseguenze che la costruzione dell’Auditorium avrebbe sull’area circostante, sono possibilisti, ma segnalano che la falda profonda dell’area Auditorium è in collegamento con quella della Cappella. E’ evidente che non si può affidare a un progettista di una nuova opera la salvaguardia dell’ambiente né affidargli il verdetto sulla possibilità che l’Auditorium danneggi la Cappella, nell’immediato o negli anni futuri.

"Gli affreschi di Giotto minacciati dall'auditorium" l'appello che divide Padova Dario Pappalardo -la Repubblica

«Gli affreschi di Giotto sono in pericolo». A Padova, il progetto di costruzione di un auditorium a 200 metri dalla Cappella degli Scrovegni mette in allarme Italia Nostra e un gruppo di storici e intellettuali - da Salvatore Settis a Carlo Ginzburg - che lanciano un appello per scongiurare l'avvio dei lavori. «La delicatissima situazione idrogeologica sottostante al luogo che contiene gli affreschi del Trecento sarà modificata inesorabilmente», dicono. Il disegno dell'architetto austriaco Klaus Kada prevede la realizzazione di un enorme cubo bianco nell'area di piazzale Boschetti: una casa della musica con una sala grande di 1300 posti, che affaccerebbe direttamente sul Piovego, il canale cittadino, alle spalle della Cappella degli Scrovegni. Negli ultimi mesi, il Comune ha affidato a tre ingegneri un'indagine sulle eventuali conseguenze della nuova costruzione. Il responso è che l'edificazione del’auditorium sarebbe possibile «purché non vengano modificate le quote locali della falda acquifera nell'area degli Scrovegni». Nello spazio di qualche centinaio di metri, intanto, è stato appena realizzato un parcheggio, mentre è già aperto il cantiere per un grattacielo che supererà i 104 metri.

«Gli affreschi di Giotto rappresentano il principale patrimonio identitario, culturale ed economico della città. Chi arriva a Padova viene per lo più per visitarli. Non saremmo mai così suicidi da metterli in pericolo», spiega il vicesindaco di Padova Ivo Rossi. «Abbiamo speso 300 mila euro per affidare l'esame ai tre saggi. Faremo ulteriori valutazioni, la nostra attenzione sarà massima. Il progetto dell'auditorium non è stato ancora assegnato: se dovessimo scoprire che ci sono problemi, saremmo pronti a modificare i nostri propositi. Padova vanta una lunga tradizione musicale e ha bisogno di uno spazio di questo tipo. In Italia, spesso, si rischia di restare fermi e di non concretizzare nulla».

Se anche Facebook è in fermento - il gruppo KADAstrofe (che gioca col nome dell'archistar Kada) diffonde la protesta sul social network - storici e intellettuali non si sentono rassicurati dall'esito delle indagini commissionate dal Comune di Padova. «La situazione idrogeologica della Cappella è già molto fragile e la falda profonda dell'"area auditorium" risulta in collegamento - spiega la storica Chiara Frugoni, tra i principali promotori della raccolta di firme a cui ha aderito anche il veneto Franco Miracco, consigliere del ministro dei Beni culturali Ornaghi. Nel 2009 si denunciò che il terreno intorno non era in grado di assorbire l'acqua piovana e si creavano ristagni. È facile capire quale pericolo l'acqua rappresenti per le pitture. Chiediamo che prima che inizi la costruzione dell'auditorium si realizzino opere di massima salvaguardia del sottosuolo della Cappella, possibilmente a seguito di un concorso internazionale». Dal Comune ribattono: «I controlli alla falda acquifera degli Scrovegni sono costanti. Vengano pure a controllare la documentazione. Si tratta di un falso problema: fino agli anni Cinquanta, e quindi per 700 anni, prima che si intervenisse, il fiume che scorre lì vicino aveva un regime diverso. Quando c'erano le piene, la Cappella si trovava sempre con l'acqua che la lambiva, per fortuna, però, gli affreschi si sono conservati».

L'auditorium della discordia per ora rimane un progetto nel cassetto. Al di là delle contestazioni, mancano ancora i finanziamenti. Il costo dei lavori si aggira attorno ai 60 milioni di euro. La Fondazione Cassa di Risparmio aveva stanziato prima 55 milioni, poi 35. Adesso la situazione è ferma. E dal Comune non escludono di pensare presto a soluzioni alternative.
A partire dal luogo dove far sorgere la casa della musica. Magari un po' più lontano dagli affreschi di Giotto, che quest'anno festeggiano il decennale del loro restauro, conclusosi nel 2002.


L'intervista - a Salvatore Settis -Eddyburg.it.

«In duecento anni, è la seconda volta che la zona in cui si trova la Cappella degli Scrovegni, viene messa in pericolo per ragioni di guadagno». L'archeologo e storico dell'arte Salvatore Settis, tra i primi firmatari dell'appello contro la costruzione dell'auditorium di Padova, si riferisce a quando, nel 1827, gli ultimi eredi, i Gradenigo, fecero abbattere Palazzo Scrovegni, bisognoso di restauri, e minacciarono di fare lo stesso con la Cappella attigua. Dopo anni di contesa, l'aggressione fu sventata con la vendita della piccola chiesa al Comune di Padova, nel 1880. «Quella distruzione è ancora da risarcire», dice ora Settis.

Professore, perché non si deve costruire l'auditorium? «In primo luogo per il problema di natura idrogeologica che comunque esiste: anche se il rischio fosse solo dell'1 per cento, bisogna fermarsi. Occorre sempre prendere per buona la valutazione più allarmistica: se un aereo "potrebbe" cadere, io non lo prendo. Stiamo parlando di Giotto».

E la seconda ragione? «Non si deve cambiare la funzione storica di quell'area, ma rispettarla. A un passo ci sono anche gli Eremitani con le pitture di Mantegna. Adesso, oltre a un parcheggio, e ad altra cementificazione, si procede alla costruzione di un grattacielo. Tutto questo mi sembra perverso e non è degno della città di Padova».
Insomma, la zona va lasciata così com'è... «C'era un progetto di dedicare tutta quell'area al verde pubblico. Ecco, sarebbe il giusto modo per riparare a quel danno di quasi due secoli fa».

Conclusioni:

Il problema della salvaguardia del patrimonio artistico mondiale in suolo italiano si è riproposto in maniera drammatica negli ultimi anni. I crolli di Pompei, le perdite incommensurabili della domus aurea di Roma nonchè i vari fenomeni di vandalismo che coinvolgono piazze e fontane pubbliche, sono tutti  tasselli di una serie dolorosissima di eventi che mettono  in luce l'incuria, l'ignoranza e l'incompetenza delle autorità preposte alla tutela ma anche dei comuni cittadini.
    Bisogna prendere coscienza del valore e delle incredibili risorse che derivano dai beni culturali e artistici del nostro Paese, da considerarsi non come un residuo ingombrante di un passato che si può dimenticare, ma come la testimonianza perdurante  di una stratificazione culturale ricca e impareggiabile.
Senza peccare di esterofilia, è utile comunque ricordare che Paesi come la Germania o l'Inghilterra, dove la concentrazione di opere d'arte è assai minore che nel nostro,  mettono a punto ogni anno campagne di conservazione e valorizzazione e conoscenza del patrimonio non solo ubicato entro i loro confini ma anche fuori.  Le opere d'arte e i monumenti presenti nel nostro Paese sono una risorsa economica, non solo culturale.
 Resta il problema di coniugare salvaguardia del patrimonio artistico allo sviluppo urbanistico contemporaneo che risponde ai sempre crescenti bisogni della società.  E' necessario, in un Paese come il nostro in cui l'abusivismo edilizio e le deregolamentazioni in materia di costruzioni hanno segnato in maniera negativa la storia degli ultimi decenni arrecando danni irrimediabili al territorio e al paesaggio, che si operi finalmente in maniera rispettosa e intelligente, varando progetti articolati   e rispondenti ad esigenze di natura diversa, nel rispetto delle regole previste dalle normative vigenti. Si può credere  che tali istanze non rimangano solo vane e utopiche speranze, ma divengano parte integrante della nostra realtà quotidiana.

L'Appello:
Chiediamo che prima che inizi la costruzione dell’Auditorium, si realizzino opere di massima salvaguardia del sottosuolo della Cappella, possibilmente a seguito di un concorso internazionale.
 Chi volesse sottoscriverlo, può mandare un’email al professor Sergio Costa: gs.costa@alice.it 

alcuni dei sottoscriventi:
Chiara Frugoni
Francesco Aceto
Roberto Bartalini
Francesco Caglioti
Laura Cavazzini
Keith Christiansen
Maria Monica Donato
Vittorio Emiliani, per il Comitato per la Bellezza
Julian Gardner
Carlo Ginzburg
Maria Pia Guermandi, per Eddyburg
Donata Levi, per PatrimonioSos
Franco Miracco
Tomaso Montanari
Alessandra Mottola Molfino, per Italia Nostra
Alessandro Nova
Titti Panajotti, per Italia Nostra Padova
Giuseppe Pavanello
Antonio Pinelli
Giuliano Pisani
Serena Romano
Steffi Roettgen
Salvatore Settis
Giovanna Valenzano
Bruno Zanardi.

                                                                                                                                               Noemi Silvia Lacetra


sabato 14 gennaio 2012

Headspace


Siamo lieti di informare tutti voi bravi lettori di questi nostri scArti che siamo entrati pienamente in un periodo fecondamente riflessivo.
Siete invitati ad unirvi a noi, ché male non vi farà.
Auguriamo a tutti una buona meditazione.




From:
http://www.cristinaguitian.com/projects/headspace/






Otta V.

sabato 7 gennaio 2012

Come un manuale, ma al contrario!

Pablo Echaurren, “Controstoria dell’Arte”, Gallucci, 2011.



Cosa succede se un noto artista italiano - autore di dipinti, fumetti, illustrazioni, libri gialli e tanto altro – si rapporta con il lungo e tortuoso percorso che separa i dipinti rupestri dalle installazioni contemporanee, in quella che è nota a tutti come “storia dell’arte”? I casi sono due: se l’artista in questione è un affermato esponente di una qualche affermata (a suon di dollari e aste internazionali) corrente dell’arte dei nostri giorni, magari succede che ne scriva in termini di esaltazione e glorificazione incondizionata, strizzando un occhio a quel sistema che ne ha fatto ciò che è, che gli ha cucito addosso una patente di autenticità e autorevolezza. Oppure - e veniamo così al secondo caso della nostra domanda – l’artista di cui ci stiamo occupando è un “brontolone, uno che non gli sta mai bene niente, che cerca il pelo nell’uovo”, come scrive egli stesso. Se questa è la premessa, è inevitabile che l’oggetto di analisi, la storia dell’arte, si trasformi allora in qualcos’altro, una narrazione meno “istituzionale” e accademica: una vera e propria “Controstoria dell’arte”. È questo il titolo del nuovo libro di Pablo Echaurren, uscito il mese scorso per l’editore Gallucci.
In poco più di cento pagine si avvicendano, rispettando una successione fatta di brevi capitoli, periodi storici dalla durata secolare e movimenti artistici che hanno compiuto una breve ma intensa parabola negli anni. Il carattere distintivo della narrazione di Echaurren (in questo come in molti altri testi dell’autore) è senza dubbio l’ironia, e come potrebbe essere altrimenti se qui si sta bersagliando un intero sistema, fatto di mezze verità, luoghi comuni e radicate convenzioni storico-critiche? Ma l’ironia non è messa lì come scusa per divagare senza raggiungere mai il nocciolo della questione. È un tratto necessario per tentare di scardinare il consueto approccio serioso e pregiudizievole verso una materia viva e pulsante – nonostante tutto - come l’arte. Così, fra riflessioni sulla creatività umana, sul concetto di “manierismo” e sulla figura dell’artista, l’agile zigzagare di Echaurren fra secoli di storia (anzi, di controstoria) porta alla luce spunti di analisi davvero sorprendenti: su tutti una splendida pagina sui demoni della pittura del tardo medioevo o l’accostamento dei bassorilievi delle colonne romane di Traiano e Marco Aurelio al più recente
linguaggio del fumetto. Come non vedere, infatti, in quel lungo nastro spiraliforme che caratterizza le colonne romane “fumetti di guerra con tutti quegli ometti affannati a darsele di santa ragione e di santa legione, con tutte quelle frotte compatte di soldati marcianti e cavalli scalpitanti. Con tutte quelle scenette congestionate e pupazzettate di scontri, assedi, conquiste, azioni teppiste, battaglie navali, bastonature, infilzature, masse captive”. Sorpresi? Beh, solo in parte, se avete iniziato a prendere familiarità con i testi e
le opere di Pablo Echaurren, “brontolone” intelligente.


di Marco Pacella

mercoledì 28 dicembre 2011

Un noir tinto d'azzurro - Dimmi che non vuoi morire

Massimo Carlotto e Igort, “Dimmi che non vuoi morire”. Mondadori, 2007

Accade spesso nei romanzi e nei racconti noir che la narrazione sottolinei fin dall’incipit che si è di fronte a qualcosa di violento, sporco, in cui ciò che è in gioco non è solo l’intrigo che porta alla soluzione finale del caso. Anzi. Di frequente questa soluzione non c’è, per il semplice motivo che non può esserci lieto fine se il cerchio non si chiude, o peggio si è costretti a fare i conti con una realtà che non è iniziata con il consueto “c’era una volta” e evidentemente non termina con “…e vissero felici e contenti”.



Stando a questa premessa, appare forse strano che in “Dimmi che non vuoi morire” – uno straordinario romanzo grafico scritto da Massimo Carlotto per le matite di Igort – il racconto inizi con un “tranquillo” viaggio in nave giunto quasi al termine, a poche miglia dalla meta: la costa della Sardegna. Non c’è sangue, né uno sparo o una corsa nella notte per sfuggire alle sirene spiegate che ti inseguono. Tutto apparentemente fermo. E invece no. Il viaggio porta subito i tre protagonisti (l’Alligatore, Max La Memoria e Beniamino Rossini) al cospetto di uno squallido personaggio, nel cui volto e nei cui modi si rispecchia la faccia più arrogante e beffarda del potere e del malaffare. Un personaggio che trascinerà gli eventi delle pagine successive in una discesa verso il basso del raggiro e del piccolo interesse egoistico, qualità che legano molti dei personaggi presenti nel racconto. Se da un lato, quindi, la narrazione prosegue sul binario consolidato del noir, fra nebbie padane e luminose facciate di palazzi sardi – senza disdegnare un breve salto a Parigi - dall’altro questa è sostenuta abilmente dal semplice ed efficace tratto di Igort, disegnatore di grande esperienza, capace con la grafite delle sue matite e le piatte campiture d’azzurro, di accompagnare il racconto lungo quell’ “oscura limpidezza” attraverso cui Carlotto ha scelto di farlo scorrere. Igort non è un autore che cede al decorativismo e all’abbondanza dei particolari per suggerire le scene in cui sono coinvolti i personaggi e, se ciò è ben visibile sfogliando le pagine del racconto, diventa ancor più evidente in quelle poste al termine del volume, in cui semplici chine al tratto commentate da poche righe scritte proprio dall’artista illustrano il “making of” che ha portato alla realizzazione finale delle tavole. A questo proposito è interessante sottolineare quanto Igort scrive a commento di uno degli schizzi in questione: “Mi pacciono queste ombre a pennello che diventeranno gli azzurri del libro. Se un disegno regge lo vedi anche solo dalle ombre”. È infatti sulle ombre che si gioca il lavoro dell’autore in questo romanzo grafico. Si tratta pur sempre di ombre nette, nonostante l’utilizzo del tratto a matita, senza ausilio di chine, possa inizialmente suggerire una volontà di resa più delicata dei contrasti chiaroscurali. Matita dicevamo, ma accanto a essa svettano le campiture azzurre, di tonalità non brillante (e come potrebbe essere altrimenti se qui nulla lascia spazio al sorriso). Dal gioco sapiente di questi due elementi Igort ricrea le atmosfere più o meno illuminate che coinvolgono gli attori in scena, dosando il tratto azzurro per stabilire gli effetti luminosi e rendere il buio di stanze notturne prive di luce.



Un’ultima notazione merita una delle tavole finali del libro: al centro della pagina un riquadro rettangolare ospita una griglia suddivisa in nove scomparti in cui è proprio l’azzurro a farla da padrone. Niente luci, niente chiaroscuro, solo la successione di alcuni elementi evocativi della storia che si avvia inesorabilmente verso la fine. Una nave, un braccio. E poi corpi di donna, alberi spogli e una pistola. Sono oggetti all’apparenza muti, e continuerebbero a esserlo se ci si lasciasse ingannare dall’assenza di parole di questa tavola. Ma chi ha letto le pagine precedenti sa bene che ognuno di essi ha molto da raccontare, in questa amara storia di brutti ceffi e sporchi affari.



di Marco Pacella

martedì 20 dicembre 2011

Meyer Schapiro: lo Stile


Style è uno dei saggi più famosi di Meyer Schapiro1, storico dell’arte lituano di nascita e americano d’adozione, noto per i suoi studi sull’arte medievale e contemporanea, sicuramente inseribile nel pantheon della grande critica d’arte.




Saggio breve e di lettura piuttosto semplice, per chi ha confidenza con la disciplina storico artistica.

Saggio manualistico e di taglio storico: l’autore non ha teorie da esporre, o novità metodologiche da mettere in mostra, ma presenta una rassegna più o meno esaustiva del dibattito critico avutosi intorno al concetto di Stile – se Schapiro, tra i tanti temi possibili, sceglie proprio questo è perché siamo di fronte a quello che è probabilmente il concetto-guida della storia dell’arte in quanto disciplina scientifica: <<Lo stile- la “visibilità” delle arti visive- è il problema centrale che legittima la storia dell’arte come campo di ricerca autonomo>>, scrive Irving Lavin2.

Una lettura quanto meno istruttiva, insomma; sicuramente necessaria, come necessarie sono le letture dei buoni manuali.

Eppure bisogna ammettere che un senso di amarezza, a lettura terminata, un po’ rimane, specie se si conoscono altre opere di Schapiro: perché qui può sembrare che la complessità e la componente altamente stimolante tipiche dei suoi scritti non ci siano; restano la competenza e la lucidità di esposizione, ma nient’altro o quasi.

Ma andiamo con ordine.

<<Per “stile” si intende la forma costante- e talvolta gli elementi, la qualità e l’espressione costanti- dell’arte di un individuo o di un gruppo>>; è così che Schapiro apre il suo saggio, con una definizione netta e precisa, che non lascia spazio ad equivoci.

Poco più avanti aggiunge:<<Ma lo stile è soprattutto un sistema di forme dotato di una qualità e di un’espressione portatrice di significato, che permette di riconoscere la personalità dell’artista e la visione del mondo di un gruppo>>; mi sembra che in questo passaggio lo studioso riveli l’ascendenza della tradizione iconologica sulla propria formazione di studioso; lo stile come rivelatore della <<visione del mondo di un gruppo>> lascierebbe pensare alla nozione panofskyana di forma simbolica.

Inoltre quello dello stile si presenta come concetto qualitativo, che decide della maturità raggiunta dall’arte di un periodo e dalla stessa cultura che l’ha prodotta, specie se più arti differenti presentano tratti stilistici comuni, in quanto <<indizio dell’integrazione di una cultura e dell’intensità di un momento di forte creatività>>; viceversa l’eventuale mancanza di stile determina un giudizio negativo: debolezza e decadenza di un dato periodo artistico e socio-culturale.

Il presupposto di questa concezione è che in un dato periodo storico ci possa essere un solo stile, preciso e chiaramente identificabile; da tutto ciò Schapiro prende le distanze (e lo fa in più punti del saggio, quando per esempio difende la pluralità di stili dell’epoca contemporanea in quanto conquista insostituibile): i principi di anticipazione, fusione e continuità (e quindi di una generale costanza) sono quelli che maggiormente caratterizzano lo sviluppo degli stili: non che non esistano nella storia dell’arte rotture brusche e determinanti, ma più spesso <<limiti precisi vengono fissati per convenzione […] Il singolo nome attribuito allo stile di un periodo raramente corrisponde a una caratterizzazione chiara e universalmente accettabile di un tipo>>. Determinante è quindi la coscienza che lo stile può non essere uniforme: bisogna considerarne <<l’aspetto non omogeneo, instabile, le tendenze oscure verso forme nuove>>, caratteristiche che mettono in discussione l’idea di unità dello stile nelle sue applicazioni nei vari medium artistici.

Dopo aver ribadito l’importanza dello studio dell’arte contemporanea per la comprensione dell’arte del passato e per la nuova considerazione, da essa derivata, di prodotti artistici prima denigrati se non proprio inconsiderati (arti primitive, infantili, psicotiche), lo studioso propone una rapida rassegna degli schemi di sviluppo e successione per come sono stati prodotti dalla critica formalista: sono i nomi di Riegl e Wölfflin insieme a quelli meno noti di Frankl e Löwy a riempire le pagine centrali del saggio. Fatto curioso: uno studioso comunemente considerato anti formalista si sofferma lungamente su teorie formaliste e dimentica di analizzare nello specifico gli studi iconologici e sociologici.

Non che manchi, a dire il vero, l’accenno alle teorie contenutistiche e sociologiche; a queste ultime è riservata la chiusura del saggio, che è anche una critica diretta alle teorie artistiche di Marx; alle prime invece imputa una superficialità di fondo: <<Il rapporto fra contenuto e stile è più complesso di quanto sembri da questa teoria>>, e soprattutto <<i tentativi di desumere lo stile dal pensiero sono spesso troppo vaghi per produrre altro che intuizioni suggestive; il metodo genera speculazioni analogiche che non reggono a uno studio critico dettagliato>>; Schapiro, da ciò, trae una conclusione importante: <<Ma spesso il contenuto dell’opera d’arte appartiene a una regione dell’esperienza diversa da quella in cui si sono formati sia lo stile dell’epoca sia il modo di pensare dominante>>.

Insomma, di questa complessa storia di teorie e metodi applicati allo studio dell’arte, Schapiro propone un bilancio che ne valuta insieme i meriti e le insufficienze; si potrebbe pensare a una sorta di atteggiamento moderato che porta ad accettare “di tutto un po’ ”,e a condannare “di tutto un po’ ”.

Ma in definitiva, sulla questione dello stile, qual’è l’opinione di Schapiro? E qual’è il suo metodo ?

Per rispondere alla prima domanda, non rimane che tornare all’apertura del saggio, a quella formula che ho citato per intero all’inizio e che, a mio avviso, sarebbe da imparare a memoria tanto è giusta.

La seconda domanda, invece, esige una risposta che deve portarci fuori e dentro Style.

Dentro. E’ nella pluralità di metodi che, secondo me, consiste il metodo di Shapiro; un metodo che però non accoglie tutto indistintamente, ma che anzi di ogni approccio propone una verifica e una revisione che lo depuri dagli eventuali errori- questo mi sembra essere uno degli elementi costituitivi di Style in quanto analisi e valutazione storica.

Fuori. Siamo dunque davanti a un concerto depurato, organizzato e armonico di metodologie (e questo non significa che si debba sempre essere d’accordo su tutto).

Perché è’ proprio vero che Meyer Schapiro è uno storico dell’arte atipico3 e multiforme, capace di passare e spesso di fondere insieme raffinate analisi formali ( il capolavoro- nonché ultima opera-L’impressionismo- riflessi e percezioni4), sociologiche (il celebre Natura dell’arte astratta5, esordio dello studioso nel campo dell’arte contemporanea), psicologiche (l’altrettanto celebre Le mele di Cézanne6), senza contare le fondamentali aperture alla semiologia (Parole e immagini7).

Ma appunto l’applicazione di tutta questa ricchezza metodologica e di approcci non è da ricercare specificamente in Style; l’errore che si potrebbe commettere è di cercare qualcosa nel posto sbagliato: qui, quella che ci viene offerta è una via sicura, chiara, precisa, per cominciare l’avvicinamento a quella che per molti versi è (o comunque è sicuramente stata, come appunto dimostrano le pagine schapiriane) la meta ultima della storia dell’arte in quanto disciplina scientifica: la comprensione e definizione di quello che per Gombrich era l’enigma per eccellenza, l’enigma dello stile.




1 L’edizione a cui farò riferimento è quella di Donzelli Editore (1995) con una bella introduzione di Francesco Abbate.

2 I.Lavin,L’umorismo di Panofsky- in Erwin Panofsky, Tre saggi sullo stile, Abscondita 2011

3 C. Cieri Via, Nei dettagli nascosto, Carocci

4 Einaudi 2008

5 Ripubblicato in Alle origini dell’opera d’arte contemporanea,a cura di G.DI Giacomo e C.Zambianchi, Laterza 2008

6 In M.Schapiro, L’arte moderna, Einaudi 1986

7 M.Schapiro, Per una semiotica del linguaggio visivo, Meltemi 2002


                                                                                                                                         Di Mario Cobuzzi

lunedì 12 dicembre 2011

Settis: dal paesaggio estetico al paesaggio etico

Sabato 10 dicembre 2011 a Troia, cittadina a pochi chilometri da Foggia nota per la sua cattedrale romanica, si è tenuto, nell’ambito del progetto Ecotium a cura del Distretto Culturale Daunia Vetus, un incontro col professor Salvatore Settis, personalità che non ha bisogno di troppe presentazioni.
Dopo i soliti interventi di apertura di autorità locali e organizzatori del convegno (molto interessante quello del rettore dell’università di Foggia, l’archeologo Giuliano Volpe) Salvatore Settis si alza in piedi, munito di qualche foglio con appunti, e comincia la sua conferenza.
In via preliminare, si può dire con certezza che lo stile oratorio del grande studioso è invidiabile: la mole di dati, fatti, considerazioni non annoia, non stanca; Settis riesce a mantenere desta l’attenzione di un pubblico eterogeneo, composto di tanti non addetti ai lavori.
E come potrebbe annoiare un discorso che spazia dalla politica attuale alla storia della legislazione artistica, e che chiama in causa il senso civico dei cittadini come un dovere inderogabile attraverso esempi tratti dalla quotidiana lotta per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale?
Ecco, è su questo nostro che Settis insiste: un nostro che chiama in causa ognuno di noi in quanto parte della collettività, in quanto agenti attivi della preservazione di un qualcosa di preziosissimo da difendere in nome della memoria del passato e dell’interesse delle generazioni future- non è dunque un caso che Settis abbia come punti di riferimento la gloriosa tradizione italiana della Tutela e la Costituzione del ’48 che di tale tradizione è per molti versi l’atto culminante.
E così lo studioso si rivolge alla Chiesa in quanto istituzione determinante del nostro Paese,
chiamandola alle proprie responsabilità, salutando con entusiasmo la rinnovata attenzione che gli esponenti del clero stanno riservando al patrimonio culturale, dopo i fasti settecenteschi entrati da tempo nella storia della Tutela del patrimonio culturale (Settis non può fare a meno di ricordare l’editto Pacca).
Il concetto di paesaggio è quindi concetto ampio che comprende la sfera laica come quella
religiosa, quella politica e sociale come quella etica (e qui i riferimenti a Croce e ai padri della Costituzione). Il paesaggio diventa specchio della società: i suoi mali attuali rendono manifesti i dissesti politici e sociali della nostra Italia appena uscita dall’era berlusconiana.
Il punto fondamentale del discorso di Settis, l’elemento da cui partire per rovesciare la tragica situazione odierna del patrimonio culturale (beni culturali + beni ambientali) prevede un rovesciamento a monte: dal paesaggio estetico –quello delle cartoline, dei bei dipinti, delle contemplazioni estatiche- si deve passare al paesaggio etico, quello che forma concretamente la persona, che è parte essenziale della sua stessa quotidianità; un paesaggio in cui agire attivamente in nome della sua tutela e della sua trasmissione alle future generazioni (che non sono quelle dei nostri figli e nipoti, aggiunge Settis, ma quelle che si affacceranno al mondo dal prossimo secolo).
L’evoluzione del concetto di paesaggio proposta da Settis diventa quindi una “chiamata alle armi”, esige una presa di coscienza dell’intellettuale (Zanzotto e Pasolini -di cui vengono proposte brevi ma illuminanti letture- tra gli altri) come del semplice cittadino: la de-esteticizzazione del paesaggio è atto di responsabilizzazione; esige la necessità, per lo storico dell’arte, di abbandonare gli atteggiamenti da dandy noncurante chiuso nella torre d’avorio del proprio sapere, e carica il cittadino di una responsabilità che nessun’altro (siano anche le istituzioni) può e deve assumersi al suo posto.
Il concetto di paesaggio etico che Settis propone segna, a mio avviso, una cesura importante nella storia della tutela del patrimonio culturale: sta a noi renderla fruttuosa.
 
 
di Mario Cobuzzi

venerdì 9 dicembre 2011

"Mali Culturali" male argomentati



Domenica 4 Dicembre 2011 Milena Gabanelli ha dedicato l’inchiesta di apertura del suo programma alla situazione attuale dei beni culturali (il sito della Rai permette di vedere integralmente la puntata online).
Il panorama tracciato da Report è deprimente. Probabilmente il nostro paese un periodo altrettanto decadente, in materia di tutela del patrimonio culturale, non lo ha mai vissuto prima.
Report ha il grande merito di aver posto all'attenzione di un pubblico ampio, e troppo spesso mal informato, questa situazione degenerata che ormai da anni non stupisce più gli addetti ai lavori e quanti si preoccupano di seguire le sorti dei beni culturali e della storia dell'arte.
Eppure, premesso appunto che siamo grati a Milena Gabanelli per aver voluto toccare e approfondire questo argomento fondamentale, ci sentiamo comunque in dovere di muoverle una critica.
Report ha concentrato la sua indagine solo sugli aspetti meramente economici e turistici riguardanti il patrimonio culturale, escludendone quelli primari e fondativi: quelli squisitamente culturali (salvaguardia della cultura del passato e insieme impulso per nuove forme di cultura) e identitari, costituenti la coscienza nazionale e la memoria storica della nazione.
La tutela del patrimonio culturale non può avere fini puramente commerciali!
Tutto ciò non è minimamente preso in considerazione: gli avvertimenti illuminati di Settis e Daverio (che dopo aver citato Marinetti a sproposito dice una grande cosa) rimangono così inascoltati: l’esempio del castello francese coi pupazzi della bella addormentata (ridicolo!) e del “modello americano” ( e su quest’ultimo fatto a chi ha realizzato l’inchiesta sarebbe bastato leggere poche pagine dell’ Italia s.p.a di Settis per farsi venire qualche dubbio) sono la miglior dimostrazione che, alla fine dei conti, la materia storico artistica non è pane per i denti del programma di Rai3, nonostante la buona volontà e la certa buona fede.
Report critica il Tremonti della “con la cultura non si mangia”, ma in pratica rimane bene addentro al modello di pensiero tremontiano: solo così si spiega l’agghiacciante frase finale della conduttrice “sul cosa scegliere e cosa buttare” -sempre che quella della Gabanelli non fosse semplice ironia; e comunque, dopo l’altrettanto agghiacciante “sono troppi” di Galan, ex ministro dei beni culturali (e qui rimandiamo all'articolo dello scorso 16 Novembre), e dopo gli sfaceli mostrati, c’è ben poco da scherzare.
Insomma, quella di Report rimane una buona puntata, ma tutto sommato non mostra che la punta dell'iceberg della condizione disastrosa in cui ci ostiniamo a relegare la nostra cultura.

di Mario Cobuzzi e JaneLane